Il 12 marzo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha consegnato l’Onorificenza di Cavaliere di Gran Croce a Rosa Oliva, la prima donna italiana ad aver potuto intraprendere la carriera di prefetto e a essere ammessa a partecipare ai concorsi pubblici, dopo aver vinto il ricorso presso la Corte Costituzionale nel 1960.

La Oliva si vide respingere la sua richiesta di prendere parte al concorso, a causa dell’articolo 7 della legge n. 1176 del 17 luglio 1919, che vietava l’adesione alle donne. Grazie all’azione pionieristica di Rosa Oliva si è aperta la strada all’entrata in scena delle donne nella gestione della res publica.

Rosa Oliva, 1960

 Ma adesso a che punto siamo?

  Sarà il perenne stato di lockdown in cui viviamo da circa un anno a questa parte, ma la mia mente si   interroga e pensa più del solito. Questo processo (alle volte logorante) mi ha portato a chiedermi se da giovane donna potessi ritenermi soddisfatta della società in cui vivo. La risposta ha avuto più zone d’ombra che di luce.

 Mentre Barbara Palombelli decanta da Sanremo diritti che lei e la sua generazione sono riusciti a  conquistare e che, nella sua teoria dei fatti, io e molte mie coetanee dovremmo difendere alla stregua  dei Cavalieri del Santo Sepolcro; io vorrei  che una donna salisse su uno dei palchi più famosi  della televisione e della musica italiana e mi dicesse che è arrivato il momento di unire le forze per cambiare realmente le cose.

Sì, viviamo in un paese certamente più emancipato per le donne rispetto allo Yemen, ma rifiutiamo di porci in relazione alle nazioni europee e democratiche con le quali dovremmo confrontarci. È recente l’ultimo Global Gender Gap Report 2020, che conferma la totale assenza di un Paese equo e non discriminatorio nel mondo. Tuttavia, i primi cinque Paesi della classifica Islanda, Norvegia, Finlandia, Svezia e Nicaragua, hanno colmato almeno l’80% dei divari di genere. Su 153 Paesi, l’Italia risulta essere solo in settantaseiesima posizione. Come è possibile tutto ciò? 

Viviamo in una società dove demograficamente le donne sono in numero maggiore, ma uno dei beni di cui facciamo più uso nella nostra vita viene tassato “come se fosse un tartufo pregiato” al 22%: gli assorbenti.

È stato calcolato che in media una donna nel nostro paese spenda nell’arco della sua vita, circa 3000€ per acquistarli. Alcuni comuni italiani stanno prendendo iniziative autonome per andare incontro alle donne dei loro territori. L’amministrazione di Pontassieve (Toscana) nella cui farmacia comunale, ha totalmente abolito l’Iva al 22% facendosene direttamente carico. A livello nazionale la proposta di abbassare l’Iva al 5% è ferma.

È dal 2018 che il movimento “Onde Rosa”lotta per cercare di abbattere la Tampon Tax, ma al momento nella manovra 2020 c’è stata solo una minima riduzione per gli assorbenti biodegradabili. Ma sai c’è  il Covid” è la nuova scusa del secolo. 

Viviamo in una società dove la legge del 22 maggio del 1978 n.194, che sancisce e depenalizza le modalità di accesso all’aborto, è costantemente messa in pericolo. Circa il 70% dei ginecologi sono obiettori di coscienza (7 medici su 10) e la loro presenza si concentra soprattutto nell’area meridionale del nostro paese. Però se qui al sud abbiamo i medici antiabortisti, nell’area del centro-nord non stanno messi meglio. Infatti la giunta regionale umbra, seguita a ruota da quella marchigiana e abruzzese (tutte leghiste) stanno avanzando proposte di leggi regionali che limitano l’accesso all’aborto farmacologico e permettono la presenza di movimenti per la vita cattolici all’interno dei consultori.

Siamo nel XXI secolo o nel Basso Medioevo?

Il problema dell’aborto è direttamente proporzionale all’autodeterminazione del corpo femminile. In uno dei talk che ho condotto nell’ambito dell’evento in streaming “8 Marzo e non solo”, parlando di femminismo 2.0 nato con attiviste e divulgatrici, mi è stato detto che il corpo è politico. Il corpo femminile è da sempre oggetto di contestazione, come se qualcuno o qualcosa dovesse rivendicarne la proprietà. Il parlamentare di turno, il padre o il marito padrone, la comunità giudice, la bigotta del quartiere… si sparano sentenze sul perché e per come quell’organismo umano debba comportarsi. “Il corpo è mio e ne faccio quello che voglio”. Sembra quasi un’ovvietà ma in realtà non lo è. Dal vestire in maniera attillata al pubblicare una foto seminuda, dall’ avere relazione aperte con più uomini o donne al decidere di concepire un figlio con l’inseminazione artificiale. Quali di queste azioni che vede il corpo femminile protagonista assoluto, non passa sotto lo scanner della nostra società? Nessuna. 

Viviamo in una società dove i tanto chiacchierati social network sono diventati la lettera scarlatta delle donne.

Ex gelosi o fidanzati educati male, condividono foto e video intimi della ex o della propria fidanzata da un gruppo all’altro di WhatsApp e Telegram, con l’unico obiettivo di denigrare e umiliare. Dobbiamo dire che in Italia dal 6 agosto del 2019 esiste l’ art. 612 del codice penale, che punisce il reato di “Revenge Porn”: diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti, realizzati con il consenso dell’interessato ma che vengono diffusi senza nessuna autorizzazione, andando a ledere la privacy, la reputazione e la dignità della vittima.

Chi è colpevole, a seconda ovviamente della gravità, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro. Cento punti a Grifondoro sicuramente, ma non abbiamo risolto il problema se la mentalità maschile non viene educata. Non è uno scherzo goliardico condividere con 20.000 iscritti di un gruppo di messaggistica online le foto della tua ex in atteggiamenti provocanti o intimi. Non c’è nessuna vendetta da mettere in atto né alcun territorio da dover rivendicare. Dovrebbero esistere il rispetto e la maturità intellettiva  per mettere a tacere l’istinto da bestia insito in ognuno di noi. Ma del resto se fosse così non esisterebbero lo stupro e il femminicidio.

Se la presenza femminile non fosse stata imposta numericamente nei consigli comunali, regionali e alle Camere, la donna in ambito politico sarebbe stata un animale mitologico. Le quote rosa sono discriminanti ma allo stesso tempo necessarie. Sarebbero utili anche nei consigli dirigenziali delle aziende italiane, dove il ruolo di amministratore delegato è ricoperto solo al 18% da donne (Women in business 2021), presenza tra l’altro diminuita del 5% a causa della pandemia. 

Alle volte penso che se fossi nata uomo la mia vita sarebbe stata più facile, senza complicazioni e con diritti già acquisiti.

Ma poi penso alle parole di Oriana Fallaci in “Lettera a un bambino mai nato” e un nonsoché di fierezza e voglia di riscatto si innesca:

Vorrei che tu fossi una donna. Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d’accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia […]essere donna é così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. […] Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse una mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata. Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. E solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto ad urlarlo. E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più divertente che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto”.

di Maria Cristina De Rosa

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