Per la giornata mondiale del teatro incontriamo tre protagonisti della scena cavese. Tre generazioni diverse, tre differenti scuole di formazione e retroterra artistici, tre modi peculiari di rendere originale il proprio teatro. In un anno senza spettacoli li incontriamo laddove si vive la quotidianità e la messa in scena, nelle sale del Laboratorio ARTE TEMPRA con Renata Fusco, a Domenico ‘Mimmo’ Venditti del Piccolo Teatro al Borgo e Luigi Sinacori di Arcoscenico.
Tra le parole dei tre artisti ci sono gli ultimi cinquant’anni della storia italiana e cavese, ci sono imprescindibili riferimenti artistici per chi si appresta a questo mestiere e c’è un occhio attentissimo al futuro. Non mancano i rimorsi, ma è centrale in loro l’assoluta sicurezza che la pandemia, la crisi sanitaria ed economica, le mancanze di prospettive culturali di pertinenza politica ed amministrativa, non intaccheranno il Teatro, non fermeranno la produzione originale e l’evoluzione di un pensiero mai statico, sempre in evoluzione.
Tre personaggi, una sola passione. Poco condiscendenti verso un facile approdo delle proprie intuizioni artistiche, sono -ognuno a suo modo- sulla rampa di lancio per la ripartenza.
Renata Fusco, co-direttrice del Laboratorio Arte Tempra, fondato da Clara Santacroce, artista e musicista. Fusco si diploma come ballerina, perfeziona il canto lirico e il doppiaggio, oltre alla recitazione. È attrice di teatro e musical, performer, doppiatrice e insegnante di doppiaggio.
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Iniziamo parlando di quest’anno senza teatro, di cosa è mancato, e di come immagini il prossimo futuro.
Il teatro è un modo di essere, di condividere la realtà con gli altri e anche di condividere gli affetti. Quest’anno ci ha messi a dura prova, perché siamo stati forzatamente strappati a tutto ciò che amiamo, che fortemente desideriamo e in cui crediamo.
Uno strappo forte, prepotente, che però forse ci ha fortificati. La storia ci insegna che in tutti i momenti di crisi, se mantenuto un certo fermento culturale, c’è stata una scintilla per passare a qualcos’altro. Il modo migliore per digerire questa assenza è intuire dove il teatro può farci arrivare.
Gli spazi saranno solo quelli? Saranno anche altri? Capire come il mezzo multimediale ci può aiutare a livello di comunicazione o circuitazione dei prodotti. Far conoscere il proprio teatro anche fuori dalla stretta cerchia di persone che vedono teatro da sempre, a chi non è stato ancora stato colto dal sacro fuoco del teatro. Adesso bisogna allearsi con forze simili che possano condividere i nostri discorsi e ampliarli, completarli. Arte Tempra non si è mai fermata. Facciamo anche didattica online, per fortificare gli strumenti dell’attore ed aiutarlo ad essere degno della scena che riconquisterà. Il segreto di questo mestiere è non fermarsi mai, stare attenti al segreto che sta nascosto dietro l’angolo.
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Quali sono i riferimenti artistici e culturali di Arte Tempra?
Il Laboratorio Arte Tempra nasce nel 1994 dalla caparbia volontà della mia mamma artista Clara Santacroce, forse ispirata all’idea del grande Proietti del laboratorio teatrale, per iniziare un lavoro artigianale sui talenti. Io e mia madre -lei pianista, io cantante- abbiamo una figura di riferimento in comune, Roberto De Simone, che ho trovato ad un certo punto della mia carriera e non ho più lasciato. Anche mia madre lo ha diverse volte incrociato durante la sua formazione. Nell’interpretazione di un copione abbiamo l’abitudine di lavorare come su una partitura musicale. E questo quando ho lavorato col maestro De Simone mi ha molto aiutata.
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Raccontaci un po’ di più questo rapporto con tua madre, da figlia a collaboratrice artistica.
Mia madre, essendo un’artista, è sempre stata mia alleata. L’ho riscoperta madre e amica, complice e collaboratrice quando abbiamo condiviso l’attività teatrale. È come conoscere un genitore in maniera molto più intima, perché devi entrare, tramite i personaggi o lo studio di un lavoro, nelle maglie del tuo essere individuo, scardinando i ruoli che si hanno nella vita, che restano sempre lì, ma di cui per un attimo ti dimentichi, perché devi scoprire la persona. Entravo, da figlia, un po’ in punta di piedi nei meandri dell’intimità di mia madre, ed è bello poter condividere i suoi sogni, le sue passioni, i suoi desideri, le sue malinconie, i suoi rimorsi. È un rapporto creativo, indissolubile.
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Tre medaglie che esibiresti al petto e un grande rimpianto della tua carriera.
Io mi ritengo una persona molto fortunata. Medaglie ne sento molte, avevo dei sogni nel cassetto che sono riuscita a realizzare. Molti sono ancora lì che aspettano, ma io penso che ci sia sempre tempo nella vita. Una di queste è diventare elemento forte di una delle ultime compagnie di De Simone, quelle più folli e mature. Essere scelta, poi, come voce nel Fantasma dell’Opera da Andrew Lloyd Weber; anche diventare doppiatrice Disney.
Un rimpianto è sentirsi sempre come un “nemo propheta in patria”. Cava de’ Tirreni è un po’ sorda e cieca; è sempre difficile fare le cose qua, e a me piacerebbe tanto perché credo che la mia scuola debba essere qui, dove sono nata e ho le mie radici. Ma dal punto di vista teatrale Cava non c’è, o non vuole esserci, perché poi bisogna capire quali siano le volontà delle istituzioni. Mi dispiace che dopo trent’anni di carriera col Laboratorio ancora dobbiamo elemosinare i posti per poter fare spettacolo, nonostante la nostra rassegna dia lustro alla città, sia tra gli eventi più attesi dell’anno.
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Cambierà in futuro l’approccio al teatro di Arte Tempra?
Un anno fa già c’eravamo avviati per una strada diversa. Nel 2018 con “La settima arte”, in cui praticavamo una forte unione tra cinema e teatro, una parte dello spettacolo era completamente girata in studio con attori, e credo che oggi si debba andare sempre di più in questa direzione. Prima della chiusura, a dicembre 2019, abbiamo fatto lo spettacolo “Leopardi e Chopin” che viveva costantemente in bilico tra azione dal vivo e video, e certe volte le due cose erano connesse, con attori evocazione del video e video evocazione degli attori. Che poi è sempre stato l’input di mamma. Già negli anni’80, nella prima versione di Leopardi Chopin, suonava dal vivo con delle immagini meravigliose di un fotografo, Paolo di Donato, che fotografava immagini strepitose, all’apparenza senza precisa connotazione, e le legava con un sistema di dissolvenza che era quasi un video. E questo lavoro ha segnato un indirizzo.
L’interruzione forzata ha conclamato l’esigenza, anche ai miei occhi, di capire come funziona la comunicazione in video e fotografica, ed è entusiasmante. Al momento è l’indirizzo anche delle installazioni museali d’avanguardia, che creano commistioni di più arti insieme. E su questo bisogna puntare, perché ce lo sta chiedendo il linguaggio contemporaneo, non la pandemia. Questo è il nostro prossimo obbiettivo. Ma per farlo c’è bisogno di alleanze, di forze che siano competenti in questo settore, tecnico e creativo, tale da essere complementari con le altre parti dello spettacolo.
Domenico ‘Mimmo’ Venditti, direttore artistico dell’Associazione e Compagnia Piccolo Teatro al Borgo di Cava de’ Tirreni, attore formatosi alla Scuola di Antonio Casagrande. Da più di quarant’anni porta la Compagnia cavese sui palchi di tutta Italia e in Europa.
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Cos’è stato il PTB (Piccolo Teatro al Borgo) per Cava de’ Tirreni?
Il PTB non è mai stata una vera associazione culturale, non abbiamo mai fatto vita sociale, né è stata una vera Compagnia teatrale. Il termine PTB mi richiama alla mente una piccola sala, una cantina, che Enrico Salsano, allora presidente dell’Azienda di soggiorno, aveva scoperto al Borgo Scacciaventi 91. Su comode panche in legno, rustiche, era capace d’ospitare 142 posti, un palco e tutta l’attrezzatura illuminotecnica.
Un piccolo teatro, il primo teatro (privato, nds) a Cava de’ Tirreni che non fosse una sala parrocchiale, dove solitamente si tenevano spettacoli in periodi festivi particolari, mentre il PTB nel 1976 partì con una vera Stagione. Dopo gli esordi con la Stagione dovemmo lasciare la sala nel 1980 per questioni di agibilità, e ci inventammo il cosiddetto “teatro itinerante”: con l’aiuto dell’Azienda di soggiorno, a volte, e di Assessori alla cultura -che all’epoca erano lungimiranti, a differenza degli ultimi tempi- portavamo il teatro nelle frazioni, nelle scuole, ovunque si potesse e durante tutto l’anno.
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Raccontaci in un’immagine la Cava dei vostri esordi, e l’Italia in cui vi muovevate.
Nel 1979, dopo tre anni di attività continua di spettacoli e di Stagione Teatrale, arrivò l’ammissione al primo Festival di Pesaro, che all’epoca non si teneva al Teatro Rossini ma al Teatro Sperimentale. Un Festival prestigioso, allora come oggi, per cui per noi fu stupendo. L’anno dopo, nel dicembre 1980, ci fu un’Italia che rispose al terremoto di quel novembre.
Cava de’ Tirreni aveva subito danni materiali e tragedie umane, e dall’Aquila alcuni amici che ci avevano visti in scena a Pesaro ci invitarono, verso la metà di dicembre, per fare spettacolo. Ricordo che alla fine dovemmo quasi litigare, perché pretendevano di pagarci, in modo da aiutarci, immaginando che ne avessimo bisogno. Queste due immagini credo siano lampanti: per la prima volta Cava de’ Tirreni arrivò ad un festival nazionale, e l’Italia si avvicinava a Cava partendo dall’Aquila, per aiutare una popolazione terremotata.
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C’è stato un momento nella vostra carriera in cui avete pensato di poter smettere, o in cui poteva andare tutto diversamente?
Mai abbiamo pensato di smettere, soltanto perché siamo sicuri che il PTB andrà sempre avanti, anche quando non ci sarà più Mimmo Venditti. Però c’è stato un momento difficile, che è un po’ il nostro cruccio, il nostro dolore. È il 2 aprile del 2012. Da un po’ di tempo disturbavo il Sindaco dell’epoca perché la Sala Teatro Comunale non era ben gestita. La chiamata per una riunione di tutte le associazioni arrivò il primo di aprile, e in effetti fu un po’ un pesce d’aprile. Noi arrivammo addirittura con un piccolo regolamento, e il Sindaco, addirittura, mi offrì la direzione del teatro, ma io proposi che invece richiedesse che fosse la rappresentante delle stesse a far richiesta per una gestione condivisa, anche se noi del PTB eravamo la compagnia più longeva ed anche economicamente solida.
Proposi di farci lavorare per un anno, dimostrando la nostra competenza, dopodiché avrei chiesto al Sindaco di intitolare quella sala ad Enrico Salsano, che è stato l’unico a costruire i teatri a Cava, dalla sala del Seminario (da dove parliamo, nds) all’Alferiano della Badia di Cava. Il Sindaco si disse entusiasta, stava quasi per sottoscrivere questa richiesta. Solamente che pochi mesi dopo, il 31 agosto dello stesso anno, s’era dimenticato di tutto. Concesse ad un’altra associazione che ne fece richiesta l’intestazione del teatro.
Quando a novembre lo incalzai prima dell’inaugurazione della Sala mi disse, testualmente, “Mi devi perdonare, me ne ricordo adesso”. Naturalmente non ebbi da ribattere, nonostante mi fosse difficile credergli. Ma non recrimino, poiché anche gli amministratori successivi, nonostante io abbia proposto loro di risolvere la situazione, non hanno mai reagito positivamente. Quando festeggiammo il quarantennale (nel 2016, nds) proposi che l’attuale intestatario del teatro avesse un’altra sala dedicata, il Museo Luca Barba, un museo del folklore, cosa giusta per un degno figlio di Cava, che però non si occupava e non conosceva di teatro, e a cui anch’io sono legato da profonda stima e affetto. In questo modo si sarebbe dato lustro a lui, e si sarebbe liberata la possibilità di intitolare la sala ad Enrico Salsano, come sognavamo da tempo. Ma così non è stato.
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Parliamo della difficoltà di tornare, dopo un anno del genere.
Non ci ha fermato mai niente, e credo che anche in un momento come questo -e lo dico a chiunque- abbiamo l’obbligo di crederci. Fino all’ultimo respiro io mi dedicherò al teatro. Ho l’obbligo di pensare che ritornerò, anche se in veste differente. Lo devo alla città, al pubblico, agli attori del PTB, ai ragazzi della Scuola di Teatro (Accademia Cavese di Cultura e Arte, A.C.C.A, nds), e lo devo ad una compagnia con la quale ci siamo gemellati alcuni anni fa, essendo anche premiati per questo legame, e fummo premiati da Patrizia Reso, una donna che mi era nel cuore e che adesso lo è ancora di più; ecco: lo devo agli amici di Arcoscenico. Abbiamo il dovere di tornare, ed io sono sicuro di tornare.
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Allora ci vediamo domani?
Una domanda che sembra una provocazione, ma è bello rispondere. Sì, ci vediamo domani. Ci vedremo presto, perché non sarà facile liberarsi di uno che crede nella tipologia del teatro che fa. Negli anni abbiamo affrontato Molière, l’Enrico IV di Pirandello, l’Edipo Re di Sofocle nella traduzione di Quasimodo. Testi anche difficili da digerire ma che il nostro pubblico ha accolto positivamente. Poi abbiamo continuato su un teatro apparentemente meno ostico, ma in cui crediamo molto. Perché credo che oggi non esista più tanto interesse sulla formula con cui si fa teatro. Piuttosto credo che esistano il teatro fatto male e quello fatto bene. Noi abbiamo il dovere, l’obbligo, di essere quelli che qualunque tipo di teatro facciano, sia Teatro fatto bene.
Luigi Sinacori, Presidente e Direttore Artistico dell’Associazione Arcoscenico, diplomato all’Accademia Cavese di Cultura ed Arte, formatore teatrale e drammaturgo.
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Arcoscenico come non l’hai mai raccontata a nessuno.
Un aneddoto che non abbiamo mai raccontato a nessuno è che Arcoscenico è nata in un garage. All’epoca, e non mi vergogno a dirlo, ci sono state delle incomprensioni con alcune persone che oggi non fanno più parte dell’associazione. Abbiamo deciso di cambiare nome, ritmo, ed impostazione, e con pochi mezzi economici a disposizione ci vedevamo in un garage.
Nel 2015 abbiamo cominciato a puntare su un teatro di qualità, impegnandoci in una maggiore e continua crescita personale. E non ci siamo fatti fermare da quelle che possono essere le invidie degli adulti.
Si crede, infatti, che i giovani di solito siano instradati da chi è più esperto, ma non sempre è così. Perché non sempre essere scalzati o “superati” viene accettata di buon grado dai propri maestri. Noi invece abbiamo proseguito dritti per questa strada, dimostrando nel nostro piccolo dei miglioramenti sostanziali. Proviamo a creare un teatro che ci rispecchi, non solo che possa piacere al pubblico.
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Cosa vi differenzia rispetto al resto del panorama cavese?
Negli ultimi due anni abbiamo collaborato strettamente con una storica Compagnia cavese, il Piccolo Teatro al Borgo, diretto da Mimmo Venditti. Questo spirito di collaborazione non sempre riusciamo a riscontrarlo negli altri gruppi. Non è da parte nostra un modo di sminuire nessuno. Semplicemente, nel campo amatoriale, è difficile che si riesca costantemente a produrre teatro e a creare un discorso che non porti avanti solo pochi spettacoli per poche volte l’anno. Il nostro intento era quello di creare una vera Stagione Teatrale, e per due anni consecutivi ci siamo riusciti, più che discretamente secondo me. Il senso di avere un teatro in città è proprio questo: poterlo tenere vivo e aperto tutto l’anno. Certo questo tocca un dente dolente della città, la mancanza di un vero Teatro. Noi lavoriamo in un piccolo spazio, quello del Piccolo, e cerchiamo di fare con ciò che abbiamo a disposizione.
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Parlaci della vostra linea che unisce il teatro tradizionale a testi inediti
Anche noi, da attori giovani ed in crescita, siamo partiti dal mettere in scena del teatro edito, di autori importanti. Poi, proseguendo con la nostra formazione personale ed accademica, abbiamo provato a fare un lavoro drammaturgico differente, partendo dalle nostre parole su carta e portandole in scena. Non so quanto ci siamo riusciti, ma riteniamo fondamentale che oltre alla rappresentazione di autori classici, ci sia una componente personale.
Quando scrivo, io scrivo per il gruppo. Non costruendo i personaggi sul mio gruppo di attori, ma immaginando già di portarlo in scena con loro. Amo molto immaginare il mio teatro, sia se scrivo un dramma o una commedia grottesca -i due generi sui quali mi sto cimentando- e pensarlo già in scena con le persone che ho attorno. Abbiamo però notato che, andando in scena, alle volte il pubblico non recepiva allo stesso modo un testo inedito drammatico rispetto a quello comico, che vede di solito una maggiore affluenza di pubblico in sala.
Una volta Gigi Proietti disse che, attraversando le varie sperimentazioni degli anni ’60 e ’70, ha scelto poi di seguire una sola direttrice: lavorare per il pubblico. A riguardo sono solo in parte d’accordo: è giusto dare al pubblico qualcosa che desideri, ma è importante anche aprire i suoi orizzonti. La difficoltà, da parte del pubblico, è sedersi senza sapere cosa li aspetta. Chi vede un testo conosciuto tende a cercare una corrispondenza con ciò che ricorda, come spesso si fa coi filmati delle commedie eduardiane quando vediamo le stesse messe in scena oggi a teatro; con un testo inedito bisogna interessare nel momento stesso della rappresentazione, quando il pubblico è ancora all’oscuro di tutto. È un’arma a doppio taglio, ma noi ci crediamo.
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Cosa avete fatto durante quest’anno per evitare il rischio immobilismo?
Ricordo bene le ultime due date dello scorso anno in cui siamo andati in scena: 29 febbraio e 1 marzo, con una mia commedia inedita (Una famiglia quasi normale, nds). Quindi da più di un anno non saliamo su un palco. Per non restare al palo ci siamo inventati dei contributi via web. Abbiamo pensato ad una piccola trasmissione, “Non ci resta che”, ospitando in video personaggi del teatro e della cultura, dal Presidente della nostra federazione nazionale, la U.I.L.T., ad attori e registi di musical. Abbiamo provato anche a continuare le nostre prove su piattaforma, con letture ed esercizi teatrali, e a volte abbiamo provato a cimentarci con le riprese casalinghe da condividere via social. Ma il teatro è altra cosa.
È stato quasi un esercizio spirituale, un palliativo, una necessità. Per non abbandonare del tutto la possibilità di fare dell’arte. Ma il teatro senza pubblico non esiste, come ripeto sempre alla fine dei nostri spettacoli. E noi vogliamo tornare davvero in presenza, senza distanziamenti, per abbracciare il nostro pubblico dal vivo.
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“Un pensiero poetico”.
In questo ultimo periodo stiamo preparando -ve lo svelo in anteprima- “Aspettando Godot”. E noi, in effetti, siamo in attesa perenne di questo Godot, che nel nostro caso è la possibilità di riprendere in presenza il teatro. Cito un film di un po’ di tempo fa “Le Crociate”. Orlando Bloom a un certo punto chiede all’attore che interpreta il Saladino quanto valga per lui Gerusalemme, e la risposa è “Niente… tutto!”. E per noi è questo il teatro. Niente, perché non c’è stato in quest’ultimo anno, ma è tutto, perché sì, abbiamo continuato le nostre vite, ma è come se ce ne avessero tolto un pezzo, una parte di noi. E visto che, come diceva anche Eduardo, il teatro è vita, noi speriamo di riprendere questa vita al più presto.
di Mariano Mastuccino